Rinascere, da qualche parte nell'entroterra siciliano

01 May 2020

Là dove nacque la primavera

Da tempo immemore associamo la primavera a un concetto di rinascita. Oggi questa buffa primavera ha conquistato dopo una estenuante guerra di trincea tutte le fioriere dei nostri balconi, ma il verde fuori dalle nostre case rimane (ancora per poco) un miraggio.

E proprio oggi che navighiamo in acque mai mappate prima, per non smarrirsi è forse salutare guardare indietro laddove tutto è cominciato. Infatti, secondo il mito, la primavera nasce in Sicilia.

Ovidio nelle Metamorfosi racconta di un lago nei pressi di Enna (il Lago di Pergusa) dove la giovane Kore (Proserpina o Persefone) venne rapita dal Dio degli inferi Ade mentre questa era intenta a cogliere fiori. La madre di Kore, Demetra, sfogò il suo dolore rendendo aridi i campi in una sorta di inverno eterno. Zeus strinse quindi un patto con Ade in virtù del quale Kore sarebbe risalita sulla terra sei mesi all’anno, riportando la bella stagione.

La sottovalutata Enna, il capoluogo più alto d’Italia, merita senza dubbio una visita: scoprirete l’aspra generosità del profondo entroterra siciliano. Rimarrete incantati dai panorami visibili da ogni angolo: dalla Rocca di Cerere (divinità dei raccolti, appunto), da Piazza Belvedere, dal Castello di Lombardia...insomma un vero e proprio balcone sull’isola.

Foto di Guido Radig, licenza Creative Commons

(foto di Guido Radig, licenza Creative Commons)

Fotosintesi urbana

Anche a Palermo c’è stato un periodo in cui sono spariti i fiori dai campi. Non per intervento divino bensì come conseguenza dei piani regolatori del dopoguerra che annientarono il verde della Conca d’Oro, gli eleganti villini liberty e il profumo delle zagare. Rinascere oggi significa quindi riprendersi i propri spazi.

Un luogo simbolo di questa riappropriazione è il popolare quartiere arabo della Kalsa (un tempo residenza dell’emiro). Il quartiere, caduto in rovina nel Novecento, è oggi animato da nuovi fermenti. Se il suo cuore, Piazza Magione, sembra concentrare ferite del passato e nodi irissolti (i ruderi dei bombardamenti, i murales dedicati a Falcone e Borsellino) tutto attorno è cantiere perpetuo. Nell’ambito del progetto Pangrel (2018) sono comparsi meravigliosi murales uniti dai tema di accoglienza e integrazione.

Un recupero straordinario è quello di Palazzo Butera, rilevato e ristrutturato dal collezionista d’arte Valsecchi. Si tratta di un palazzo “aperto” e integrato col contesto urbano, che può essere attraversato come una galleria per giungere al mare, quel mare spesso quasi invisibile dal centro. Oggi Palazzo Butera è interamente visitabile e vi si tengono mostre di arte contemporanea. La ristrutturazione ha impiegato le conoscenze antiche di artigiani riportati dalle montagne alla città: sono state aperte nuove scuole d’arte. E’ stato rifiutato il modello di museo chiuso: è più simile a una bottega viva che rimette verso l’esterno gli stimoli assorbiti, in un processo di fotosintesi creativa.

La Chiesa dello Spasimo sembra essere una sintesi di questo spirito. Incompleta, è rimasta senza tetto e proprio per questo sembra abbracciare tutti: dagli appassionati di arte contemporanea, alla comunità dei tamil cingalesi che si uniscono ugualmente alla processione di Santa Rosalia, sfilando magari sotto l’effige dell’altro patrono di Palermo: San Benedetto il Moro, il santo nero ritratto in questo murales con le scarpe da calcio.

Palermo guarda al futuro ed è in progetto il primo museo al mondo sul Liberty che dovrebbe recuperare Villa Lanza Deliella, altra “vittima” del dopoguerra.

foto di Alessandro Bottone, licenza Creative Commons

(foto di Alessandro Bottone, licenza Creative Commons)

Riprendersi gli spazi, crearne nuovi

La Sicilia vanta nel suo passato uno dei più ambiziosi progetti di ricostruzione della storia. In seguito al tragico sisma che squassò la Sicilia Orientale nel 1693, una nobiltà illuminata face rinascere secondo un caratttere architettonico unitario l’intera Val di Noto, costruendo anche insediamenti ex novo. Le condizioni irripetibili di questo grandioso esperimento hanno fatto sì che oggi possiamo apprezzare a Noto, Ragusa, Scicli, Caltagirone e Modica una summa del Barocco continentale (di cui queste città rappresentano un ultimo apice, filtrato attraverso sensibilità e materiali locali).

A Noto tutto sa di gusto per la scenografia. Le sue meraviglie si offrono con generosità ai nostri occhi fra gli spazi ampi di scalinate e piazze, invece di nascondersi fra gli spazi angusti di altri centri siciliani. Tutto emana sfrontata vitalità. Palazzo Nicolaci e la Chiesa di Santa Chiara gareggiano in splendore quando cala la sera. I mascheroni dei balconi raffigurano angeli che ridono e animali mostruosi che fanno le bocccacce. Qualsiasi sia l’allegoria, per me restano boccacce che idealmente si fanno beffe della tragedia ormai passata.

Il resto ve lo mostrano Monica Vitti e Gabriele Ferzetti da questo balcone affacciato su Noto, nel film L’Avventura del 1960.

Altre ricostruzioni ci ricordano quanto sia importante ripartire da chi il territorio lo vive. Il sisma del 1968 nel Belice ha completamente annientato paesi come Poggioreale, Salaparuta e Gibellina Vecchia. Quest’ultima è stata trasformata nel Cretto di Alberto Burri, la più vasta installazione artistica al mondo. E’ un ideale sudario di cemento che ha impacchettato per l’eternità le vie del vecchio paese.

Gibellina Nuova invece fu costruita a tavolino con l’intento di farne una piccola capitale dell’arte contemporanea. Il problema è che queste architetture, seppur “di grido” piovvero letteralmente dall’alto senza tenere minimamente conto della volontà dei locali, ancora oggi legati alla memoria del vecchio paese. Nella sua semplicità, mi ha emozionato di più il Cretto di Gibellina vecchia e il suo silenzio.

Abbiamo tutti un debito verso questa zona: in seguito al sisma i giornalisti RAI chiamarono questa area Bèlice con l’accento sulla prima sillaba, mentre la pronuncia corretta è Belìce. Questa dicitura prese talmente piede che ormai anche molti locali pronunciano così. Facciamo rinascere il Belìce e la sua memoria partenda da un gesto semplice: ripristiniamo l’accento originario.

Sottotraccia: piccoli laboratori

In questi tempi la contingenza ci impone di ripensare gli spazi cittadini: non c’è migliore occasione per seguire con interesse i vari paesi “laboratorio” che stanno tentando di ripopolarsi e rinascere. Un esempio positivo sembra essere quelo di Salemi (anch’essa nel Belice): borgo arabo svuotatosi negli ultimi decenni e che recentemente sta riqualificando il proprio centro attraverso collaborazioni con varie università italiane. Nel 2016 Salemi è stata eletta "Borgo più bello d'Italia".

Fra i vari provvedimenti presi, anche l’oramai nota prassi di mettere in vendita antiche case a un Euro. Chissà, anche voi potreste “rinascere a Salemi”. Sembra il titolo di un buon libro. O vi suonano meglio Mussomeli, Cianciana, Bivona, Sambuca, Gangi? Potreste farlo anche lì.

A Castelbuono, nelle Madonie, la raccolta della Manna (linfa di frassino) è ripartita grazie ai giovani, molti dei quali ritornati in paese da altre regioni. Lo sviluppo del turismo lento ha contribuito a far rinascere borghi su itinerari fino ad oggi ignorati, come la Magna Via.

E allora mi chiedo cosa stia accadendo in tanti altri minuscoli paesi incontrati casualmente e rimasti in un cassettino del cuore. Posti come Geraci (posto in cima a un pendio assurdo, con strade talmente strette da essere percorribili solo con eroiche Fiat 126) oppure Novara di Sicilia, dove fummo accolti/interrogati da una curiosissima anziana “ma vuatri turisti siti?” che poi ci riempì di frutta. Chissà se da allora è successo qualcosa anche lì. Dovrei tornarci, e vedere. La primavera a Geraci vista dai finestrini di una 126 color oliva dev’essere bellissima.

Foto di Giacomo Costa, licenza Creative Commons

Salemi in lontananza (foto di Giacomo Costa, licenza Creative Commons)

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